domenica 28 ottobre 2012

La spalla



È dal film tratto dal romanzo di Keruac, On the Road, che è nata quella domanda che da qualche giorno rimbomba nella mia testa.  Cos’è l’amicizia?
Fino a ieri ero portato a credere che col termine amici potessi racchiudere tutte quelle persone con cui condividi esperienze, passioni, stati d’animo, occasioni importanti…
Ero convinto di questo ma sentivo la mancanza di qualcosa. Come se tale definizione fosse incompleta, superficiale, di certo non esaustiva. Sapevo che andava completata la definizione in qualche modo, eppure non me ne preoccupavo troppo.
Quel film è stata un po’ la scintilla che ha fatto scattare l’esigenza di tornare a quel pensiero, su quelle parole…
Perché? Perché vedevi i due protagonisti principali, Sal e Dean, e non potevi fare a meno di notare la complicità tra i due. Una complicità che andava oltre la classica idea che avevo io di amicizia. Assomigliava molto più alla complicità che si instaura tra due amanti, senza però sfociare nell’intimità che un rapporto di coppia prevede. 
Era qualcosa di sfacciatamente sincero e reale.

Lo so, era un film e quelli erano attori che svolgevano egregiamente il loro lavoro. Eppure sono convinto che non si può essere attori di sentimenti non esistenti nella realtà. Si portano dietro la macchina da presa emozioni esistenti, provate, magari non dai protagonisti, ma da qualcuno li fuori. Si imita la realtà che conosciamo o che semplicemente vediamo. È questo il ruolo degli attori. In quel momento capisci che tali sentimenti esistono. Probabilmente non fanno parte della tua esperienza personale, ma la fuori, per qualcuno, fanno parte della loro quotidianità.  

Capito questo, non puoi far altro che rimettere in discussione la tua vecchia definizione di amicizia.

Teniamo la condivisione di esperienze e passioni come fondamento di un’amicizia?
Ok, eppure anche i compagni di avventura, i colleghi di lavoro, i gruppi di studio, i compagni di squadra, i soci di un club, i componenti di una band, i membri di un forum,  condividono tutti esperienze e passioni medesime. Possono considerarsi amici per questo?
Non basta, evidentemente.

Teniamo la condivisione di stati d’animo simili come base per un’amicizia?
Ok, eppure anche i gruppi di solidarietà, le comunità religiose, i seguaci di mode basate sull’emotività (vedi emo, dark,  hippie, etc..) condividono stati d’animo medesimi.
Rido, ricordando uno dei personaggi di Palahniuk, Marla Singer, che nel capolavoro “Fight Club” frequentava gruppi di ascolto per malati terminali, pur essendo fisicamente sana, solo per sentirsi parte di un gruppo, per incontrare persone che riuscissero ad avere emozioni sincere verso di lei.
Può allora l’empatia essere la base di un’amicizia?
Non credo. Di nuovo, non basta.

Teniamo la condivisione di occasioni speciali come elemento fondante di un’amicizia?
Ok, ma anche un gruppo di persone che si ritrovano nel medesimo ristorante per il veglione di capodanno stanno condividendo un occasione speciale insieme. Eppure non è neanche detto che si conoscano! Così come un gruppo vacanza organizzato, una sessione di laurea, i battesimi e le comunioni in chiesa, le feste nazionali in piazza; sono eventi importanti, che spesso condividiamo con altre persone, che però non possono essere considerati automaticamente amici. Stavolta mi viene da ridere pensando alle cene tra parenti, Natali, compleanni e festività varie, dove sono ben poche le persone che considereresti “amiche” se non fossero già etichettate sotto la categoria “parenti”!
La condivisione di eventi speciali, dunque, non può essere il fondamento di un’amicizia.

Cosa rimane allora?

Probabilmente nessuna delle tre categorie è totalmente da escludere. O meglio, l’unione delle tre cose può essere la base per future amicizie.
Appare ovvio che manchi qualcosa però. 
Cosa? La complicità di cui parlavo prima nell’analisi dei due protagonisti del film. Quella complicità che porta due persone a frequentarsi al di la del tempo che possono essere stati lontanti, al di la degli orari, dell’ambiente o delle persone che li circondano. La voglia di condividere esperienze, senza dover aspettare per forza l’occasione speciale o la festività di turno. La voglia di rendere partecipe l'altro di quella che è la tua vita. Mi viene da pensare alla sincerità che si instaura tra due persone che hanno scelto la complicità come collante per il loro legame. Queste a mio avviso, per ora sembrano essere basi mature per definire un’amicizia. Se dovessi trovare un sinonimo alla parola “amico” l’unica che mi verrebbe voglia di usare è “spalla”. Non quella su cui piangere, ma la spalla ereditata dal mondo dello spettacolo.



Tra le tante definizioni date all’amicizia invece, solo una mi sento di citare, in quanto, secondo me, è l’unica degna di tale valore:

<<Quante persone vi vengono a trovare senza annunciarsi? Questo è un buon criterio per giudicare l’amicizia. E quante ci direbbero quali sono i nostri difetti? A quante facciamo regali inaspettati? Con chi possiamo rimanere in silenzio?>> (Cyrill Connolly, La tomba inquieta)

Arrivati a questo punto, quanti amici veramente vi restano?















sabato 27 ottobre 2012

Viva la Gloria!














Lo so che è dedicata ad una ragazza, ma...a me piace vederla così, 
dedicata al vero significato di Gloria! 
Un manifesto di protesta.  Una rivolta che tarda ad arrivare. 
Facendo il verso a "Viva la Revolucion", 
ora sono i Greenday a dare voce a questo appello.


"Hey Gloria,
Sei in piedi accanto al baratro?
Fa attenzione al tramonto del sole, il confine delle tue fantasie.
L'eterna giovinezza è il sottofondo della bugia

Le ferite sulla mia pelle possono dimostrare
Ciò che gli anni testimonieranno
Di le tue preghiere e accendi un fuoco
Stiamo per iniziare una guerra
Il tuo grido di battaglia è un mercenario
Era quello che stavamo aspettando

Hey Gloria,
E' per questo che siamo sul baratro
La lotta delle nostre vite è stata attirata 
In questo amore immortale

Gloria, viva la Gloria
Spari il tuo nome in graffiti sui muri
Cadi tra i vetri rotti che stanno squarciando il tuo spirito
Posso sentirlo come un esercito abbandonato

Gloria, dove sei Gloria?
Hai trovato la tua casa in tutte le tue cicatrici e munizioni
Ti sei rifatta il letto nei giorni tra le rovine
Cenere alla cenere della nostra giovinezza

Lei sferra pugni con le nocche nei momenti tristi
Come la morsa dell'autunno che dissolve nel nero
Lei è una santa tra tutti i peccatori
L'unica che è caduta nelle spaccature
Quindi non gettare via la tua luce ardente

Gloria, dove sei Gloria?
Non perdere la tua fede per la tua ingenuità che se n'è andata
Prendi il sopravvento sulla tempesta
e non guardare indietro allo scorso Novembre
Quando i tuoi stendardi sono stati bruciati

Gloria, viva la Gloria
Inviami la tua amnistia per il cuore spezzato
Portaci quel tempo che ricorderemo per sempre
Non lasciar scappare la tua fiamma

Così Gloria,
Manda il tuo messaggio di luce
Questo fantasma nella notte
Gloria, dov'è il tuo amore immortale?
Raccontami la storia della tua vita...
Viva la Gloria!



lunedì 15 ottobre 2012

Tenuti a galla per non affondare



In seguito alla lettura di quest’inchiesta di Repubblica,
(vedi link Condannati a consumare senza diritto di produrre) la prima reazione avuta è stata:
“Allora non è una mia sensazione! Non sono il solo in questa situazione!” 
Oltre lo sdegno e la quasi totale adesione al pensiero del sociologo, ho avuto una reazione abbastanza singolare! Mi sarei aspettato un commento del tipo: “Che schifo!” “Siamo ridotti male!” “Non c’è speranza!”
E invece no: “Non sono il solo!”
Sembra banale come commento, come dettato da una scarsa conoscenza della situazione attuale. Mi aspetterei a questo punto una replica del tipo: “Coglione apri un qualunque giornale e ti accorgerai che la situazione è ben più diffusa della tua singola esperienza!”
Eppure c’è un motivo se reagisco così.


Sinceramente parlando io non vedo, almeno tra le persone con cui vengo giornalmente in contatto una preoccupazione sincera per la condizione in cui versiamo.  
Praticamente tutti hanno davanti agli occhi gli effetti di questa crisi globale, e in particolar modo le inefficienze del sistema produttivo italiano che rendono questo paese attualmente fermo dal punto di vista lavorativo. Eppure tra gli under 30, nessuno mi sembra sinceramente preoccupato! Perché? Per le famiglie!
Mi spiego meglio; siamo arrivati ad un punto in cui il vero welfare del paese sono le famiglie. Sono queste infatti a fare da ammortizzatori sociali per i propri figli disoccupati.
Hanno sostituito lo stato in questa funzione, non per propria volontà ma per necessità.
Il sempre crescente numero di persone che non studiano e non lavorano riesce a tirarsi fuori dalla classificazione di “poveri” grazie all’intervento delle famiglie di cui fanno parte.
Vuoi per compassione, vuoi per senso di colpa rispetto al mercato di lavoro lasciato, sono loro a tenere a galla questa nuova generazione apparentemente incapace di autofinanziarsi. E se da un lato i genitori aiutano, concedendo vitto, alloggio e denaro ben oltre l’età della “maturità” ai propri figli, questi vengono incontro alle mutate esigenze della famiglia, conducendo una vita ben più modesta di quanto avessero preventivato.
Il problema vero è l’assuefazione a questo stato di cose!
Modificando i nostri atteggiamenti verso una politica di risparmio che ci permetta da un lato di mantenere i nostri figli, dall’altro di essere mantenuti dentro casa senza gravare eccessivamente sui bilanci famigliari, si è però creata una sorta di tiro a ribasso rispetto alle aspettative di vita.
Avviene allora che da un lato troviamo pensionati che preferiscono non sperperare i propri risparmi e le proprie pensioni (faticosamente ottenute) in viaggi organizzati, weekend all’aperto, nuovi arredamenti, cambi di casa e tutte quegli sfizi che per troppo tempo hanno rimandato, perché l’incertezza lavorativa dei propri figli suggerisce loro di mantenere un profilo più basso e preventivo. E dall’altro troviamo un esercito di giovani che, abbandonate le proprie aspirazioni, messe da parte le proprie ambizioni lavorative, ridimensionate le occasioni di vita sociale, sono costretti a condurre un tipo di vita che non sentono loro, in cui non si immedesimano, che punta continuamente al ribasso. Ed è così che senza accorgersene si è passati dalla frustrazione alla rassegnazione, dalla quale difficilmente si riuscirà ad uscire!
L’altro problema è che molti di loro sembrano non essersi ancora accorti del mutamento avvenuto. Da qui nasce la scarsa sensibilità a questo tema da parte dei diretti interessati, noi giovani appunto.
Parte della colpa in questo frangente va data alle famiglie a mio avviso. Si alle famiglie, le stesse che per spirito di compassione si stanno dando da fare per sostenerci. Sicuramente già qualcuno starà rinfacciandomi di essere un semplice ingrato, ne sono consapevole. Il fatto è che tale aiuto, costante, presente e quasi sempre sicuro (almeno per famiglie che non hanno particolari problemi economici) ha fatto si che ci adagiassimo alla mutata situazione, senza avere la forza di ribellarci a tale sistema. L’apatia totale che condividono molte delle persone con cui mi capita di scambiare pareri a riguardo, è per me la conferma che si, qualcosa non ha funzionato, ma che la sicurezza di un tetto sopra la testa e di un pasto sulla tavola ha indotto noi giovani a non cercare di reagire per cambiare le carte in tavola.
Un po’ come avviene per gli aiuti umanitari nelle zone più disagiate del pianeta. Tali aiuti, oltre ad essere discontinui, sporadici e puntualmente insufficienti, hanno fatto si che tale aree rimanessero vittime dell’assistenzialismo occidentale, precludendogli ogni possibilità di un vero sviluppo interno che le potesse rendere economicamente autosufficienti.
(Ammesso che non ci siano volontà specifiche a non cambiare le cose in queste aree, ma non è questo il tema che voglio affrontare ora..)
Così sta succedendo a noi: l’incapacità di auto-finanziarsi e la necessità di dipendere dalla famiglia, sta lentamente soffocando ogni impulso al cambiamento. L’istinto di sopravvivenza sembra essere in questa fase predominante rispetto all’istinto di emancipazione.
E’ questo a mio avviso il pericolo più urgente da affrontare.
Ben venga l’aiuto delle famiglie se finalizzato ad una crescita professionale dei propri figli (vedi corsi di formazione, stage, etc..) e non limitato ad una semplice stagnazione sotto il tetto famigliare in attesa di “tempi migliori per cercare lavoro”.
Per quanto ci riguarda, e parlo in quanto facente parte della nuova categoria dei “Neet”, l’unico slogan che continuo a ripetermi è: “Fai che il tuo desiderio di cambiamento sia più forte del tuo desiderio di rimanere uguale”.
Fatelo vostro, se volete. E che ognuno ritrovi i propri stimoli al cambiamento!
L’importante è averne, altrimenti sarete già morti dentro..